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Sveglio dalle5 per non rischiare di fare tardi al lavoro


di Christian Bardeglinu

Sto disteso sulla branda, con le palpebre che mantengo aperte a fatica. Di un film che scegliamo insieme in cella non riesco a vedere nemmeno la prima mezz’ora né ho la forza di impugnare la penna e mettermi a scrivere come faccio solitamente. Il mio corpo mi chiede di riposare e io, prima di accontentarlo, ripercorro mentalmente la mia giornata.

Ho aperto gli occhi verso le 5, molto prima della sveglia, per paura che non la sentissi e di fare tardi al lavoro, perché io questo lavoro l’ho preso davvero seriamente e non voglio richiami. Mi sono sciacquato la faccia, mi sono fumato una sigaretta e ho aspettato che mi chiamassero per scendere in cucina.
Ho iniziato a lavorare come inserviente dal primo aprile e lavorerò fino a fine maggio. Ormai quasi non ci speravo più in questo lavoro, perché è da tanto che mi hanno detto che ero in lista, eppure c’era sempre qualcuno davanti a me e il mio turno sembrava non arrivare mai.

Per me il lavoro è necessario. È una questione di sopravvivenza, mentale ed economica. Da quando lavoro le giornate mi volano. Sì, sono pesanti e arrivo alla sera col corpo a pezzi, pieno di dolori perché io alla fatica non ci sono abituato. Ma finalmente ora le mie giornate hanno un senso: non devo più inventarmi “i draghi” per riempirle e fare avanti e indietro dalla branda al biliardino. Ora ho delle mansioni da svolgere e ci tengo ad essere preciso e riuscire al meglio. Pulisco e taglio quintali di verdura, carne, frutta. Lavo un numero grande e indefinito di pentole e vassoi. Metto a posto i magazzini. E tutto questo lo faccio insieme ad altri cinque ragazzi. Per me, che non ho mai fatto nulla fuori, è un’enorme novità lavorare. È una sfida con me stesso per dimostrare che sono cambiato. Mi sento indolenzito. Sarà l’acido lattico...
Ma sono soddisfatto. Finalmente le mie giornate sono piene e scorrono dalle prime ore del mattino a sera senza accorgermene.
Oltre a salvarmi mentalmente (i miei compagni di cella, scherzando, mi dicono che stavo diventando pazzo, e che a volte parlavo da solo. Ma il carcere è questo: si è così soli da diventare i compagni di se stessi.
E ora il lavoro mi salva economicamente. A differenza di quello che molti credono, qui ci sono molte spese: innanzitutto, dallo stipendio il carcere stesso sottrae la quota di mantenimento per ogni detenuto con una condanna definitiva; poi, i soldi qui servono per fare la spesa (cibo - a meno che si prenda solo dal carrello della mensa -, bombole del gas per cucinare, detersivi, bagnoschiuma e tutto ciò che serve) e per le telefonate a casa. Dall’inizio della quarantena ci hanno esteso la possibilità di chiamare per 10 minuti da una volta a settimana a tutti i giorni. Io chiamo la mia compagna appena finisco di lavorare. È la prima cosa che faccio, prima ancora di togliermi di dosso i vestiti del lavoro sporchi e bagnati. Perché sentire lei è come tornare a casa dopo una giornata lavorativa e trovarla ad aspettarmi.
Parte dei soldi, poi, li vorrei mettere da parte per quando esco, per le spese che avremo con una casa in affitto.
Io che non so ancora quando esco, se il giudice tarda a rispondere. Forse potrei usufruire anche io del nuovo decreto ma non so quanto mi manca. Rimanere qui mi fa paura ancora di più ora che aleggia il Coronavirus: nel giro di dieci giorni o anche meno sono arrivati detenuti trasferiti da altre carceri dove c’è stato il contagio e nuovi giunti dall'esterno. Siamo ammassati in un ambiente malsano, lasciati a noi stessi senza la possibilità di dar voce alle nostre preoccupazioni. E se stai male, quel male te lo tieni. In silenzio. In alcuni casi fino alla morte.
Stasera ho pensato fin troppo. Ora spengo la testa e con essa tutti i pensieri. Mi serve riposare, perché domani mi aspetta un'altra giornata lavorativa. E io sono grato di questo lavoro.
Sono cambiato e non mi arrenderò. 

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