di Fabio Ferrante
La velocità con cui la pandemia ha colpito tutto il mondo è figlia di questi tempi. Gran parte del pianeta ha reso i ritmi di vita insostenibili e ha accorciato inesorabilmente le distanze. Alla stessa velocità, agli stessi ritmi e bruciando le distanze mondiali in una settimana, il virus ha assunto le sembianze dei nostri tempi: rapido, globale, senza etica.
Ma il virus è anche figlio di quella Cina che a passi da
gigante è diventata una grande potenza economica che vuole diventare come i
paesi occidentali prendendone gli stessi vizi, ma che nella vastità delle sue
province ha ancora usi e costumi di tempi ormai passati. Senza nulla togliere
alle tradizioni e alla cultura popolare, ma se in Italia siamo subissati da
normative igienico-sanitarie che hanno perfino costretto alla scomparsa di
alcuni prodotti culinari tipici, allora anche un paese che pretende di
confrontarsi con il mercato globale deve attenersi a logiche sanitarie minime,
soprattutto alla luce di quanti marchi aziendali in Cina sono di origine
europea e americana. Allora questo virus parte da qui, dal mercato del pesce di
Wuhan, e in poco più di un mese raggiunge il nostro paese. Dopo il primo caso
dei due turisti cinesi, il mondo della scienza e della politica ci ha
rassicurato affermando che da noi il virus non avrebbe potuto diffondersi, che
si trattava poco più di una normale influenza, che il nostro sistema sanitario
era prontissimo a rispondere.
Nei fatti l’Italia è diventata, dopo pochi giorni, il
focolaio d’Europa e del mondo occidentale, con i numeri di contagi e decessi
che crescevano in maniera incontrollata soprattutto al Nord. Paziente “0”,
paziente “1”, zona rossa Codogno, zona rossa Lombardia, zona rossa Italia: una
sequela di decreti che hanno imposto misure restrittive e chiusure a macchia di
leopardo, addirittura a distanza di due giorni l’uno dall’altro.
Conte dirà che le azioni del Governo sono state prese sempre
seguendo l’andamento dei dati e le indicazioni del Comitato
tecnico-scientifico. Ma non erano gli stessi scienziati che invitavano al non
allarmismo e paragonavano il Covid-19 a una influenza stagionale? Ma non è che
abbiamo giocato troppo in difesa? Se ti chiudi troppo e la squadra avversaria è
forte, prima o poi prenderai un gol, e noi ne abbiamo presi più di 15.000.
L’apparato sanitario è andato in crisi, mancando le risorse tagliate in tanti
anni di revisione della spesa pubblica, ma essendo orfana di una
pianificazione, pur prevista dalla normativa, per gestire un evento di questo
tipo, che colpisce cittadini e sanitari senza guardare in faccia nessuno.
Mascherine, tute, visiere, calzari terminati in pochi giorni, dove ce ne erano,
ma soprattutto la mancanza di protocolli operativi e di una centralizzazione
della gestione emergenziale, hanno fatto sì che ogni presidio ospedaliero
gestisse alla meno peggio l’afflusso di contagiati. I cosiddetti “capi” –
manager generale, direttore amministrativo, direttore sanitario (qui non si è
attuata la spending review) – non hanno competenze per coordinare eventi con le
caratteristiche di questo evento. Certo, sono stati aperti reparti nuovi,
ospedali da campo, ospedali nelle fiere, ma ormai perdevamo con un passivo
pesante la partita contro il coronavirus.
Come cittadini, dopo aver subito una tempesta di notizie
contrastanti, che hanno impedito una presa di coscienza del pericolo imminente,
abbiamo accettato nostro malgrado di restare chiusi in casa. Nel confronto tra
“noi” e “loro”, dove “noi” siamo i cittadini e “loro” i decisori, penso che
l’atteggiamento più responsabile lo abbiamo avuto noi (al netto delle voci
fuori dal coro che ci sono e sempre ci saranno). Noi abbiamo rispettato il
governo, ma il Governo ha rispettato noi? La risposta credo sia negativa. Non
ci ha rispettato nei primi momenti della diffusione del virus cercando solo di
evitare allarmismi, non ci ha rispettato costringendoci alla privazione della
libertà quando era ormai fuori controllo, non ci ha rispettato in questi anni
passati dove la logica del denaro e dei vincoli europei ha prevalso su quella della
salute del cittadino.
Mi si potrà contestare che la nostra sanità è pubblica e che
in altri Stati senza la copertura assicurativa non si viene assistiti, ma,
proprio perché i nostri valori sono altri, dobbiamo evitare l’omologazione a
quanto di sbagliato c’è nel mondo. Proprio perché siamo un paese che fa della
solidarietà uno dei suoi cardini, non possiamo dimenticare che l’evoluzione
civile passa in maniera incontrovertibile dalla sanità e dall’istruzione, due
rami colpiti e fatti cadere dalla scure dei tagli.
Per continuare ad usare un linguaggio calcistico, vedremo al
triplice fischio se saremo riusciti almeno a fare il gol della bandiera, ma
sicuramente dovremo ripensare al modo in cui il tifo per la squadra in campo si
dovrà manifestare, non più in maniera indiscussa, ma in maniera molto più
critica, perché questo disastro porterà sicuramente a rivalutare la nostra
vita. Disastro inteso non solo in termini tecnocentrici (n° di morti, perdite
economiche, ecc), ma soprattutto in termini socio-antropologici, cioè come
sconvolgimento delle dinamiche della comunità, colpita in maniera
irreversibile. In una società che già tendeva alla disumanizzazione dei
rapporti, al distanziamento sociale (termine più corretto in questa
declinazione che in quella utilizzata per il coronavirus che sarebbe più giusto
chiamare “distanziamento personale”) e al contatto mediante apparati
tecnologici, ora si ha avuto modo di vivere ancor di più con relazioni
“filtrate”, paura del prossimo, uscite solo “per motivi di necessità”, lavoro
senza attraversare il salotto di casa.
Sarà forse la fine della comunità sociale per come l’abbiamo
conosciuta finora? Io spero e confido di no, ma di sicuro qualcosa cambierà o
in termini negativi o in una gestione dei tempi di vita più a misura di uomo e
in una rimodulazione delle nostre forsennate abitudini a favore di una
ritrovata scala dei valori umani.
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