di Giovanni D'Alessandro
La vita della poetessa Emily Dickinson (Amherst, Connecticut, Stati Uniti, 1830-1886) è una poesia essa stessa. Una poesia ermetica, precisamente, che non è difficile capire, pur ricca di simbolismi e risonanze interiori come si presenta.
Figlia di un avvocato membro del Congresso
degli Stati Uniti, Emily visse in autoreclusione nella sua casa, con pochissimi
familiari intorno, tra i quali non vi era il padre, che viveva tra Washington e
Boston; da questa rurale casa nelle campagne di Amherst non si allontanò che
per brevissimi viaggi, non più di cinque volte nella sua vita; frequentò,
ricevendone la visita a casa, complessivamente sei persone (tra i quali un
giudice, un pastore presbiteriano, un editore) e dal 1860, all’età di 30 anni,
si autorecluse ulteriormente nella propria stanza, allontanandosene solo quando
era necessario e senza mai varcare il confine di un piccolo giardino. E’ la
vita di una pazza, diranno molti. Può essere, se nel liquidare Emily Dickinson
come “pazza”, si ha la stessa sbrigativa sicurezza di chi non hai mai dubitato
della differenza tra pazzia e normalità, e rigetta da sé la comprensione di
fenomeni psichici più complessi, forse ancora senza nome da parte della
scienza. Ma di certo, qualcosa di straordinario si leva dalla produzione
poetica di questa donna nata 190 anni fa, oggi considerata una delle più grandi
poetesse di tutti i tempi e assurta ad autentico mito tra gli studiosi e tra la
gente comune.
Cosa si leva dai ben 1775 brevi
componimenti, dei quali solo 7 pubblicati in vita (e conosciuti in Italia non
prima del 1955)? Una intensità di
riflessione sulla vita, espressa sempre con parole semplici e fissata in
immagini veloci, come per paura che svanisse, e una straordinariamente moderna
interrogazione sull’essere umano, nei quali ognuno, con commozione, si
riconosce.
Emily Dickinson non fu mai confortata
dall’idea di questo enorme successo che sarebbe sopraggiunto dopo la sua morte.
Lasciò tutte le poesie nei cassetti della sua stanza, e morì immaginando, senza
neppure dispiacersene troppo, che sarebbero andate disperse, distrutte, date
alle fiamme, buttate via come cose
vecchie e inutili; mai pensò di chiedere ai pochi familiari che le erano ancora
vicini quando morì a 56 anni, di affidarle a qualcuno dei - pochissimi e ormai lontani - amici, affinché si occupasse di pubblicarle
o soltanto di custodirle.
Perché dunque la sua vita è una poesia?
Perché la bellezza dei 1775 componimenti è
pari solo alla solitudine in cui furono composti. Per Emily servirono, fino
all’ultimo respiro, a mantenere viva una conversazione che, nelle sue
intenzioni, era diretta solo a se stessa. E ciò è molto raro, in quanto chi
scrive difficilmente lo fa senza sperare di condividere con altri questo mondo
fatto di parole; anche senza la prospettiva, magari, di pubblicare, ma con la
speranza, solo, di farsi leggere, ascoltare e apprezzare da qualcuno. Si
scrive, allora, per gli altri? No, ma una volta che ciò è avvenuto, una parte
del cuore cerca, quasi per un moto naturale, altri cuori che si riconoscano
nelle parole proprie; magari per un minuto,
per un secondo, e per poi dimenticare tutto. Ebbene, Emily Dickinson
contraddice ciò. La sua poesia -
altissima, universale – è pensata per rimanere confinata tra le sbarre della
mente… a conferma che esistono tante prigionie.
Non è prigionia solo la condizione imposta al recluso, il quale ha tenuto determinati comportamenti riprovati
dalla società (e qui si apre la grande pagina del chiedersi quanto egli potesse
evitare di tenerli, pagina che varia da uomo a uomo) e in conseguenza dei quali
è stato giudicato, condannato e imprigionato, a scontare una pena.
Ma la sua dialettica interiore non accetta
di venire confinata tra le due frasi: “ha sbagliato/ sta pagando”. Queste due
frasi descrivono stati di fatto e non rendono giustizia alla realtà interiore,
che è molto più complessa. La animano altre dimensioni, per esempio come
l’autocondanna, non di rado inflitta a se stesso dal recluso; la non
accettazione di sé, che esisteva da prima di essere rifiutato e allontanato
dagli altri. E se si comincia a ragionare così, forse il comportamento errato è
stato anche un urlo di disperazione, nato da una silenziosa, insopportabile
autocondanna precedente; quell’autocondanna che non verrà mai pronunciata in un
tribunale; che non troverà mai un
avvocato difensore perché il più implacabile accusatore è lo stesso uomo che ha
sbagliato. Che c’entra tutto ciò con Emily Dickinson?
Non è necessario spiegarlo a chi ha letto
le parole di sopra, le quali non hanno la pretesa di capire il mondo del
carcere e si fermano con umiltà alla sua soglia. Ma una cosa è certa. Chi è
carcerato, in questa parola non racchiude tutta la tua identità. Egli è
“altro”. E’ un uomo che ha “anche” fatto esperienza del carcere. Nel suo cuore
sa che il passato, coi suoi errori, lo
ha recluso lì, ma spesso ha preso distanza dagli errori e non vuole neanche
pensare di poterci ricadere una volta fuori. Se fosse possibile formulare una
strana domanda, cioè chi sia più a rischio di crimine/ giudizio/ condanna/
reclusione tra una persona che non ha mai affrontato queste esperienze e chi
invece sì, ebbene sarebbe più a rischio il primo. E non si obietti che chi esce dal carcere a volte
ci ritorna; qui non si parla di statistica, ma di cuore e in nessun cuore si
nutre più amore per la libertà come in
quello che ne è stato più deprivato, cioè in quello del recluso. A lui che l’ha
persa, la libertà non pare, come ad altri, scontata; lui ne conosce la brama,
che gli fa battere più velocemente il cuore; lui è il poeta, spesso anche senza
parole, della libertà.
Lo scrive bene Emily, regina di ogni
reclusione e di ogni solitudine, nel suo caso autoinflittesi, in una delle più
famose poesie: solo chi ha esperienza di sbarre non sente mai senza emozione la
parola “fuga”.
Giovanni D'Alessandro, scrittore, esordisce nel 1996 con il romanzo “Se un Dio pietoso”, finalista ai premi di Viareggio e Palazzo di Bosco e vincitore dei Premi Penne-Mosca e Convegni Maria Cristina. Il libro viene tradotto in diverse lingue.
sfoglia la rivista
Giovanni D'Alessandro, scrittore, esordisce nel 1996 con il romanzo “Se un Dio pietoso”, finalista ai premi di Viareggio e Palazzo di Bosco e vincitore dei Premi Penne-Mosca e Convegni Maria Cristina. Il libro viene tradotto in diverse lingue.
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