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Quando le parole sono pietre


di Fabio Ferrante

Lo stigma sociale è il fenomeno che attribuisce un’etichetta negativa a un membro o un gruppo con determinate caratteristiche. Fenomeno, questo, ben conosciuto da chi scrive sulle pagine di questa rivista o che partecipa alle attività di Voci di Dentro, ma che mai avrei pensato di vedere associato a un contesto quale quello dell’epidemia da Coronavirus. Una situazione che vedevo come piena di solidarietà, gesti eroici (ma anche comportamenti dissennati), intensa profusione al sacrificio, ma soprattutto un contesto che legava tutti come non mai in un momento di difficoltà (come sempre sappiamo fare noi italiani). Non mi aspettavo che esistesse un documento, prodotto da IFRC, Unesco e WHO con raccomandazioni del John Hopkins Center for Communication Research, che indicasse le linee guida per prevenire e affrontare lo stigma sociale, nel campo della salute, nei confronti di persone con specifiche malattie che possono essere discriminate, allontanate, soggette a perdita di status.

Questo è stato previsto con maggiore rilevanza su una malattia, il COVID-19, che presenta tante incognite perché essendo nuova, genera timore dell’ignoto, facendoci scaricare sugli altri queste nostre paure. Secondo la direttiva questo può contribuire a creare maggiore diffusione del contagio, in quanto il timore di essere stigmatizzato può spingere a nascondere la malattia e a non cercare immediatamente assistenza sanitaria.

I consigli riguardano sia l’uso corretto di linguaggio, sia i comportamenti. Nel linguaggio bisogna utilizzare il nome scientifico della malattia Covid-19 o Coronavirus, evitando di parlare di “virus asiatico” o “cinese”, così come bisogna parlare di “persone che si presuma abbiano il Covid 19” e “persone che hanno il Covid-19” e non definirle “sospetti” o “casi Covid”. Questo per evitare la disumanizzazione dei malati. L’utilizzo di termini quali “infetti”, “untori”, “che trasmettono il virus” attribuiscono responsabilità e criminalizzano il malato, creando così la riluttanza a sottoporsi a screening, quarantena o cura. Bisogna parlare del Covid-19 in maniera scientifica con raccomandazioni e misure di prevenzione fornite dalle istituzioni preposte, senza usare definizioni quali “peste”, “apocalisse”. 

Un ruolo importante viene attribuito ai Governi, ai media, agli influencer, ma anche agli stessi cittadini e comunità che dovranno adottare comportamenti volti al contrasto dello stigma. Fornire maggiori informazioni sul nuovo coronavirus potrebbe limitare la discriminazione, pertanto, la priorità è quella di raccogliere e diffondere dati accurati usando un linguaggio semplice e non tecnico. Come in ogni efficace comunicazione del rischio, utilizzare la collaborazione di influencers sociali può determinare la modificazione degli atteggiamenti dell’opinione pubblica. Risulta consigliato dare voce a chi dal coronavirus è guarito, per dimostrare che la maggior parte delle persone guarisce da questa malattia, ma anche costruire una campagna “eroe” per onorare chi si prende cura dei malati. Assicurarsi di rappresentare diversi gruppi etnici e proporre iniziative che creino un ambiente positivo e facilitino il senso di empatia e dello “stare uniti”, ma anche proporre un “giornalismo etico”, che non si concentri troppo sulla ricerca del paziente zero, sui comportamenti individuali e sulle responsabilità dei pazienti e che non dia troppa enfasi alla ricerca di un vaccino, che potrebbe dare un senso di mancanza di armi per sconfiggere il nemico aumentando lo stigma. La direttiva invita ad attivare azioni volte a correggere le fake news, usando messaggi empatici e di comprensione, a promuovere l’importanza della prevenzione, delle azioni salvavita, dello screening precoce, a condividere racconti che umanizzano le esperienze e le difficoltà delle persone colpite.

Di questa direttiva e del rispetto delle indicazioni fornite, mi sento di fare un’analisi per confrontarla con quanto finora lo scenario del Coronavirus in Italia ha mostrato. Ne scaturisce che pochi sono i dettami rispettati dalla stampa, ma anche dagli organi preposti. Le definizioni di “caso Covid-19” o di “sospetto Covid-19” sono ormai di uso comune sia nella diffusione mediatica che nei bollettini governativi, così come il riferimento geografico dell’origine del virus, anche se è andato man mano sparendo con l’aumento dei contagi in Italia.

Le informazioni fornite sono state alquanto frammentarie e spesso discordanti sia tra i vari esperti di volta in volta ospiti in tv, sia tra i diversi comunicati ufficiali degli enti preposti alla gestione dell’emergenza e all’informazione della popolazione, passando dalle rassicurazioni sul fatto che si trattava solo di un’influenza alla colpevolizzazione del cittadino per comportamenti non consoni al rispetto delle restrizioni. Così pure nella indicazione delle misure di prevenzione, al netto dell’igiene delle mani e del distanziamento sociale, si sono alternati proclami diversi ad esempio sull’uso della fantomatica mascherina o sulle modalità di comportamento da tenere in caso di dubbi sul proprio contagio o ancor peggio sulle attività da potersi fare all’esterno. Probabilmente anche le misure restrittive decise prima a macchia di leopardo e poi a piccole dosi hanno contribuito a non far immediatamente identificare la gravità del problema e percepirne i rischi conseguenti.

Sicuramente tanti influencers hanno partecipato, seppur in piena autonomia, alla veicolazione del messaggio di invito a restare a casa, così pure è stato dato risalto alle voci di persone guarite e all’eroizzazione del personale sanitario, mentre qualche accentuazione dei giornalisti sui temi dei vaccini, delle cure, del paziente zero e sulle responsabilità personali nella diffusione, c’è decisamente stata.

Di fianco a questo c’è tutto il mondo delle fake news costellato da una miriade di notizie veicolate tramite Facebook, Twitter, Whatsapp, ecc che rendono ancor più complessa e metodica la ricezione e la comprensione delle informazioni utili in questa fase.

Se il mancato rispetto di alcune delle indicazioni qui analizzate non ha prodotto stigma sociale (tralasciando le discriminazioni nei confronti dei cinesi oramai sopite) sicuramente hanno rallentato l’adozione di comportamenti sani da parte di una popolazione che non eccelle per il conformismo sociale. Verrà il tempo in cui, speriamo presto, si uscirà da questo incubo invisibile per poter analizzare meglio quanto la comunicazione – o errata comunicazione – abbia influito sul diffondersi del contagio.

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