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Se cerco nel cerchio…lo trovo, lo sento


di Marco Alessandrini

 Se cerco nel cerchio, / se cerco in pollaio, / se cerco la palla, / se cerco la luna, (…) / se cerco moneta, (…) / se cerco stupore, / se cerco una lettera / scritta in amore, (…) / la trovo nel letto, / la trovo nel sole, (…) / la scovo nel matto, / raddoppia nell’oro / il dono d’argento, / se cerco nel cerchio / lo trovo, lo sento”.


Una curiosità mi ha sempre colpito. La pratica della magia, che ha origini antichissime e di cui ho letto trattati di “istruzioni” del Rinascimento, richiede che prima di evocare, con nomi e formule, i dèmoni, il mago tracci a terra un “cerchio protettivo”, e vi resti all’interno.

Si incomincerà dal formare un cerchio rotondo (…). In seguito con la pietra ematite disegnerete un triangolo all’interno del cerchio (…). Fate attenzione a (…) gettare le monete allo spirito (…) affinché non vi possa nuocere quando si presenterà davanti al cerchio. (Le Grand Grimoire, XIX sec., L’Arcano Incantatore Edizioni, 2002).

 Ecco, un cerchio è un’identità, un cuore, un confine, che però qui non isola, anzi, protegge ma in modo permeabile, permettendo di confrontarsi con un altro, un estraneo, che temiamo come “il male” (un dèmone, appunto), e che invece così riusciamo a guardare in faccia e a conoscere. E poi forse persino a non temerlo più, scoprendo (come si dice di qualcosa o qualcuno) che… “non è poi tanto male”.

Penso allora alle carceri, confini rigidamente chiusi, un cerchio all’interno di un cerchio più grande, il mondo normale, che espelle da sé, in quel piccolo, impermeabile cerchio interno chi gli è sgradito, senza confrontarvisi. Penso ad un paziente paranoide, che percepisce “influssi elettromagnetici” dannosi provenire da chiunque e ferirgli il corpo, perché, senza saperlo, non ha invece confini: è troppo permeabile, a tutto, all’eccesso. Penso ad un’altra paziente vittima di compulsioni, che prima di uscire di casa si sente costretta per almeno un’ora a lavarsi senza sosta le mani ed il corpo, da quanto i suoi confini, sempre senza che lei lo sappia, sono a loro volta fragili e tenui. Penso ai migranti, in lotta proprio per valicare confini che impermeabilmente li respingono, scacciandoli come dèmoni, abbandonandoli.

Infine, come non pensare al Coronavirus? Che i confini siano rigidi, espulsivi, egoisti, o all’opposto fragili e impauriti (questi due aspetti, domando, non coesistono sempre in noi tutti?), di colpo li ha messi tutti in scacco: li attraversa in un soffio, come un vento tanto imprendibile e spietato da assomigliare a un sentimento. E li interroga, interrogando noi stessi.

Ed eccoci allora capire davvero che cosa significhi restare confinati, privati di tutto ciò che di bello siamo abituati a fare e ad avere (sempre che sia solo per noi, non per altri), e di cui tanto vorremmo nuovamente disporre. Ma anche avendo ora l’opportunità di capire come ricostruire un’identità e un confine più veri, dove anche nei semplici rapporti interpersonali non si oscilli soltanto tra gli opposti del respingere e dell’abbracciarsi, ma si possa conoscersi sempre in una distanza intermedia, che è innanzitutto dialogo, confronto vero, scoperta dell’incontro.
   
In questi giorni, una paziente mi ha detto: “Dottore, lo sa che mi sento meglio?”. “Perché?”, le ho chiesto stupito. “Da anni mi sento sola con le mie ossessioni, l’ansia, le angosce. Ora però le hanno tutti. Mi trattano da sempre come una malata, una ‘diversa’: bene, se ora parlo agli altri delle mie ‘fisse’, invece mi ascoltano, e poi mi raccontano le loro”. Ha concluso ridendo: “Siamo finalmente uguali! Anzi, qualcuno secondo me… sta pure peggio!”.

Non credo, come adesso piace a tanti dire, che dopo questa epidemia cambieremo in meglio. Senz’altro alcuni sì, ma pochi nel profondo.

La pratica della magia, certo, oggi è considerata solo una sciocca superstizione. E invece insegna i confini veri: essere se stessi, nella propria umanità, forte e tremante insieme, vicina ma anche distante, da conoscere e far conoscere. E solo così, protettiva eppure aperta. Se d’altronde non fossimo fragili, se questo non fosse il fondo nascosto comune a noi tutti, a cosa mai servirebbe avere un’identità, un “cerchio magico protettivo”? Ma anche ricrearla, ricrearlo, come fa il mago consapevole della sua fragilità, non per difendersi, espellendo o rinchiudendo altri, ma per incontrarli e conoscerli, e scoprire ciò che di comune abbiamo sempre. Interessati a guardare a portare con sé i confini, ma come sguardi aperti sul mondo.

Sogno perciò che la pur terribile epidemia del Coronavirus  spinga a creare, a comunicare, a cercare. A rendere più permeabile, tra  molti, anche il “cerchio” chiuso delle carceri. E soprattutto a immaginare, a immaginarlo.  

“Se cerco nel cerchio / lo trovo, lo sento”, scriveva Rodari. Imagine, nel 1971, cantava a sua volta John Lennon: “Imagine all the people / Sharing all the world…”. “Immaginate tutta la gente / condividere tutto il mondo”.

E tutti i virus, i dèmoni, i confini. Finalmente vedendoli, finalmente interrogandosi.

Emilio Alessandrini è psichiatra, psicoanalista, Direttore presso la ASL 2 Lanciano-Vasto-
Chieti della U.O.C. (Unità Operativa Complessa) comprendente il Centro di Salute Mentale di Chieti, il Centro di Salute Mentale di Ortona e la Residenza Psicoriabilitativa di Guardiagrele



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