di The secret lawyer
Quello che balza agli occhi, in questo periodo così difficile per tutti, è un particolare ritardo nella gestione del problema carcerario. Non per una mera trascuratezza, ma per un vero e proprio disinteresse nei confronti dell’umanità reclusa. Una umanità che ha commesso errori e che spesso viene definita e incasellata nella frase “nessuno li ha obbligati a commettere reati” o nell’altra “non è un problema delle persone oneste”. Tuttavia una umanità che esiste e che può esistere in ogni famiglia, quartiere, classe sociale.
La riduzione delle attività trattamentali,
il ricorso a misure dai requisiti così stringenti da poter coinvolgere solo
qualche migliaia di detenuti in tutta Italia, la limitazione delle libertà a
prescindere dalle condizioni (circuiti, pericolosità, semilibertà) narrano di
una volontà politica che vuole farsi carico della salute fisica e psicologica
dei reclusi “solo a costo zero”. Cioè senza risorse, senza rischi, senza
coinvolgere la società esterna. Dunque di una volontà che non è disposta ad
investire alcunché per quella fetta di umanità
che in carcere dovrebbe trovare innanzitutto riscatto, a tal fine
sacrificando un bene così essenziale come la libertà.
Questo periodo potrebbe essere un modo di
ripensare la pena non tanto, o non solo, in termini di esternalità (indulti,
amnistie, misure alternative) ma in termini qualitativi. Che differenza fa in
fondo essere imprigionati in tre metri quadri o in tre metri e quaranta
centimetri quadrati se quello spazio è totalmente privo di contenuti, di
incontri e di speranza? Che differenza fa essere in quarantena o meno se quel
tempo è impiegato senza scopo in entrambi i casi? Il sistema penitenziario, una
volta di più, sembra perdere l’occasione per avvicinare una verità banale ma
totalmente aliena alla mentalità del nostro Paese (benché costituzionalmente
garantita!): la pena in quanto sacrificio di diritti umani si giustifica solo
se proiettata ad un bene maggiore. Così come il rischio di affrontare
un’infezione da Coronavirus in un ambiente di oggettiva e necessaria
promiscuità. Il punto è che nessun sacrificio e nessun rischio si giustificano
se non per e nella prospettiva di un bene quantomeno possibile.
Le rivolte degli ultimi mesi sono inutili,
inopportune e deprecabili, ma testimoniano una mancanza di senso dominata dalla
paura e dalla rabbia. Su quella mancanza di senso la politica e tutti quelli
che gravitano in ‘zona carcere’ dovrebbero compiere un’assunzione severa di
responsabilità. Perché bene, benissimo i teatri, i canti, i tornei, le sale
socialità, gli spettacoli, le gare di cucina, lo yoga e ogni altro
intrattenimento, ma chi crescerebbe i propri figli solo intrattenendoli? Ecco,
i detenuti sono uomini che lo Stato riconosce come propri figli (art. 27
Cost.), tanto da ambire alla loro ‘rieducazione’, una parola che fa tremare i
polsi solo a sentirla pronunciare per quanto carica di significati e
implicazioni .... non si può pretendere di raggiungere uno scopo così ambizioso
facendo loro passare il tempo con mezzi transitori e scollegati da qualsiasi
prospettiva. Questo momento, che ci trova così incapaci e disarmati, può essere
utile se ci conduce ad un effettivo cambio di prospettiva, introducendoci
concretamente alla speranza del recupero (con la formazione professionale ed il
lavoro, innanzitutto!!!!). Solo allora una persona in espiazione penitenziaria
potrà affrontare il rischio ed il sacrificio nella certezza che ne valga la
pena, cioè consapevole che si tratta di un investimento per il proprio futuro.
Certo, ci vorrebbe pure qualche euro,
mentre invece tra milioni e milioni propagandati in ogni salsa … quello che
arriva è proprio il nulla.
Con “The secret lawyer” scrive per Voci di dentro un dipendente dell’Amministrazione penitenziaria
che ci ha chiesto di pubblicare con uno pseudonimo. Abbiamo accolto la richiesta, come già abbiamo fatto per Internal Observer che ha scritto nel numero precedente.
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