di Francesco Blasi
Il
Coronavirus è piombato come un macigno
sul sistema della giustizia penale. Non è una voce pescata a caso nella ormai
vasta letteratura degli allarmi di questi giorni che rischiano di gettare
un’ombra lunga anche anni sulla società italiana, ma una certezza
circostanziata di chi vive il diritto come professione. A dare voce a questi
timori è l’avvocato Marco Femminella, nome tra i più rispettati nell'ambito
penalistico abruzzese.
L’emergenza che coinvolge il complesso di
ruoli e istituzioni in queste convulse settimane ha avuto - quasi un paradosso
ma sicuramente un imprevisto piacevole - effetti positivi sulla puntigliosa
burocrazia che regola i rapporti tra studi legali, giudici, imputati e uffici
dei tribunali. “L'impossibilità di frequentare gli uffici giudiziari per le
note misure assunte dal Governo - spiega Femminella - ha snellito certe pratiche, che ora
possiamo compiere a distanza, con conseguenti vantaggi di tempistica laddove
prima dovevamo affrontare lungaggini spesso fastidiose”.
Ma la comunicazione facilitata non deve
ingannare, poiché l’emergenza sta esigendo da imputati e condannati un alto
prezzo in termini di incertezza.
“La maggior parte di loro - continua -
vive nell’apprensione, dal momento che è difficile capire come si evolverà la
situazione. E riguarda chi aveva l’esigenza di affrontare il processo, per
esempio - visto che non ci sono solo i condannati ma anche coloro che si
sentono innocenti - e che aveva scelto la linea di un confronto con il
processo, anziché “scappare dal processo”. E questo non riguarda solo chi è in
carcerazione preventiva, ma anche chi è arrivato a sentenza di condanna ed è in
attesa di una misura alternativa al carcere”.
“Ecco - aggiunge Femminella - c’è chi è
consapevole di non poter sfuggire al sistema in presenza della dilatazione dei
tempi che ormai s’è delineata con chiarezza, ma anche chi la fase
dell’espiazione della pena vorrebbe affrontarla subito, magari dopo una vicenda
processuale durata un decennio, o più, sfociata in una condanna definitiva, e
nel frattempo si è costruito una vita lontana da quel passato per il quale è
stato giudicato. Si tratta di persone che sperano giustamente di vedersi
applicare misure alternative ma purtroppo costrette a galleggiare in un limbo,
e si chiedono se dopo un’esistenza recuperata alla normalità dovranno varcare i
cancelli di una prigione o scontare diversamente la pena”.
Femminella racconta di una battaglia
appena combattuta per evitare il carcere in prima battuta automatica ai
condannati per reati contemplati dalla legge cosiddetta spazzacorrotti: “Era
previsto il passaggio obbligatorio in carcere, per fortuna ora superato per
l'intervento della Corte Costituzionale - spiega il penalista teatino, “misura
che aveva comportato un’aberrazione in quanto applicata - anche a fatti pregressi all’entrata in vigore
di quella normativa. Si trattava di una misura sconvolgente, negatoria dei fondamenti
costituzionali laddove si parla della pena che deve tendere alla rieducazione.
Era inammissibile che dopo dieci, dodici o anche quindici anni, una persona
condannata a una pena definitiva dovesse andare in carcere anziché espiare con
l’accesso alle misure alternative normalmente previste”.
Spazzacorrotti a parte, Femminella rimarca la
sostanziale ingiustizia di una detenzione a valle di una vicenda processuale
lunga con sentenza intervenuta a distanza di molti anni. “Dopo tutto questo
tempo, mi chiedo, cosa rappresenta il carcere, se non un esito tremendamente
punitivo e tecnicamente desocializzante, perché si pone prepotente un
interrogativo: quale senso ha avuto una vita appesa a un procedimento che ha
prodotto cambiamenti, spesso di rottura con i fatti contestati . E oggi questa
incertezza nei confronti del sistema, che è sempre più confuso, risulta senza
dubbio amplificata”.
L'emergenza incombe su un sistema colto
alla sprovvista tra sovraffollamento delle carceri e opinione pubblica sempre
meno incline a considerare l’universo carcerario come un problema da rivedere
alla luce di nuove sensibilità. “C’era una situazione sconvolgente già al netto
del Coronavirus - annota Femminella - ma oggi raccapriccia il solo pensiero di
cosa possa essere avvenuto per via dei normali interscambi e ingressi nelle
carceri. lo scambio tra esterno e interno, nelle carceri, è altissimo, come può
capire chiunque abbia conoscenze anche
sommarie del sistema. Pensiamo all’eventualità, nient’affatto remota, che vi
siano stati contagi attraverso soggetti positivi al virus, e chiediamoci quali
potranno esserne le conseguenze. I fatti di Foggia e Modena, le drammatiche
rivolte con evasioni di alcuni detenuti, rappresentano plasticamente una molla
scattata sulla scorta del terrore di dover affrontare l’infezione nelle mura
della prigione. Non oso immaginare gli effetti devastanti che avrebbe un
contagio innescato dai detenuti evasi a Foggia, ma anche in assenza di una
rivolta i rischi c’erano tutti. Ora, non so se le autorità carcerarie si
fossero preparate a un’evenienza del genere; voglio sperare di sì, che lo
fossero”.
Se gli effetti sanitari sono un'incognita,
anche se solo fino a un certo punto, una misura di contenimento, per quanto non
risolutiva del problema, Femminella la tira fuori dalla sua faretra di avvocato
da sempre impegnato sul fronte del benessere nelle carceri e dei loro
residenti. “Dobbiamo chiederci perché non abbiano agito in tempo, ai primi
sentori dell’emergenza, con una ricognizione dei casi rientranti nei benefici
di una detenzione alternativa, almeno per quei detenuti che dispongono di un
domicilio in cui scontare la pena, dovendo escludere gli extracomunitari per
ovvie ragioni. Comunque sia, occorre fare presto e liberare gli istituti da
quelle persone che stanno scontando pene inferiori ai tre anni, prima che la
situazione diventi ingestibile. Ogni giorno che passa è un giorno di troppo”.
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