di Nicole
De Micheli
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli
le manette, balbettava: - Dove mi conducete? - In galera? - O perché? Non mi è
toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!..”.
Così si conclude la novella “Libertà” di
Verga pubblicata il 12 marzo 1882 sulla rivista “La domenica letteraria” in cui
vengono riportati i tragici fatti accaduti a Bronte nell’agosto del 1860. Il
lungimirante Garibaldi, una volta conclusasi la spedizione dei Mille, sapeva
bene di doversi fare amico il “popolino” siciliano e la sua impresa, a quel
punto, si sarebbe potuta dire davvero vincente. Emise quindi un decreto nel
quale, volendo divenir paladino della liberazione dalle miserie e dalle
ingiustizie, promise la divisione e distribuzione delle terre appartenenti allo
Stato ai braccianti che ci lavoravano.
Peccato che i sogni son desideri e qui, di
fatine pronte con la bacchetta, non ce ne furono. I tre sanguinosi giorni
ebbero inizio e, oltre al tricolore, si innalzò lo stendardo della libertà: La
Libertà che guida il popolo. A cause di quel giuramento infranto, i braccianti
fecero uscire fuori tutta la rabbia e la violenza dentro coltivata e con unghie
e scure uccisero indiscriminatamente borghesi e proprietari terrieri, innocenti
e colpevoli, bambini, donne e vecchi. In quella promessa di libertà gli
oppressi riposero la speranza di veder rovesciate le gerarchie sociali, ma, una
volta toccata con mano l’indifferenza della legge e della giustizia, quel
malessere profondo non ha avuto più pietà per nessuno.
E lo stesso accadde tra il ’68 e il ’75,
quando, alle numerose rivolte che chiedevano a gran voce una nuova riforma
penitenziaria, risposero con la legge 354/1975. Anche qui la lista di nuovi
principi inseriti fu lunga e questo riportò un po’ di verde dentro le buie
celle: si parla di trattamenti contrari al senso di umanità, di rieducazione
del condannato, di lavoro assicurato all’interno e all’esterno, verranno
chiamati per nome e per ognuno di essi saranno valutate, nel rispetto della
dignità del singolo, misure alternative al carcere, permettendo quando
possibile di avvicinare il detenuto al mondo fuori e ai propri affetti, che a
quel mondo appartengono etc etc…
“A ciascun detenuto o internato, nel corso
del primo colloquio con il direttore o un operatore penitenziario all’atto del
suo ingresso in istituto – per consentire il migliore esercizio dei suoi
diritti ed assicurare la maggiore consapevolezza delle regole che conformano la
vita nel contesto carcerario” verrà consegnata la bandiera della giustizia: la
Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati. Accadde poi che
la felicità che al tempo regnava, iniziò a scemare quando sì iniziò a parlare
di sovraffollamento, di violazioni di diritti, di mancanza di fondi e
personale, di, di, di….
Le basi per una sanguinosa guerra erano
state poste. Quando i braccianti iniziarono ad accorgersi che, non avendo in
mano nemmeno quel pezzo di carta a loro garantito all’ingresso del carcere
(sondaggio: chi delle persone detenutene ne ha uno con sé o lo ha mai letto?),
lo scopo dei gentiluomini e dei cappelli non era mai stato il benessere
del popolo, ma la creazione di un clima di apparente stabilità, proprio in quel
momento iniziarono a non accettarlo più… Iniziò la guerra, ma qui si parla di
una guerra più silenziosa, che, se riportata ai giornali, non fa notizia. È una
guerra che non uccide l’altro, ma se stessi. Non si usa il fucile, ma la corda.
E, si, spesso a farne le spese non è solo chi sta dentro, ma anche i familiari,
il personale penitenziario stesso, bambini, vecchi, uomini innocenti. Allora
accade che, come nella novella, nella quiete dopo la tempesta, il popolo in
silenzio aspetta che arrivi la punizione e che qualcuno chiami a rapporto Nino
Bixio, al quale vien chiesto di fare giustizia, di frenare le rivolte, ma non
con riforme o nuove leggi, nate da discussioni critiche e profonde fatte a
tavolino, piuttosto con la forza. Alcuni vengono condannati per sempre, altri
sottostanno a processi infiniti e altri ancora boh, chissenefrega… e i giudici
che si trovano ad agire in nome della
Legge e dell’uguaglianza della stessa si consolano ripetendo che l’avevano
scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù,
quando avevano fatto la libertà.”
Lo stesso Verga, nella sua storia, da una
parte prova pietà per i galantuomini barbaramente uccisi, dall’altro però, non
può nascondere il sentimento di compassione per gli artefici della rivolta, due
volte vittime. Come finisce la storia?
“Tutti gli altri in paese erano tornati a
fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro
terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i
galantuomini. Fecero la pace.”
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