di
Annalica Casasanta
...Al Governo rincresce di
essere costretto ad esercitare energicamente quello che considera essere suo
diritto e dovere, proteggere con tutti i mezzi la popolazione nella crisi che
stiamo attraversando ...e desidererebbe poter contare sul senso civico e la
collaborazione di tutti i cittadini per bloccare il propagarsi del contagio…
(“Cecità” di José Saramago)
Noi attori siamo creature fortunate.
Possiamo mettere in scena i peggiori scenari possibili, possiamo piangere e
disperarci (sul serio!), possiamo interpretare personaggi crudeli e meschini
con l’assoluta certezza che, una volta calato il sipario, tutto quello che si è
vissuto resta lì, su quelle antiche assi di legno che tanto avrebbero da
raccontare. Questa è la magia del teatro: lasciarsi coinvolgere e travolgere da
quanto accade in scena pur sapendo che si sta in qualche misura mentendo. Lo
stesso accade al cinema e nelle arti in generale. Ne siamo rapiti ma sappiamo
che la realtà è lì che ci aspetta, che ci piaccia o meno. Credo sia per questo
che a tanti sembra impossibile ciò che stiamo vivendo in questi giorni, siamo
stati catapultati in un film distopico, in una situazione tragica e paradossale
da cui neppure Bruce Willis può tirarci fuori.
Qualche anno fa ho avuto la splendida
opportunità di mettere in scena, con una compagnia teatrale teatina, una
rivisitazione di Cecità, il capolavoro di Saramago del 1995, tanto
chiacchierato in questi giorni. Bè, le somiglianze con quanto stiamo vivendo
sono davvero impressionanti: ad un certo punto, non si sa come né perché, una
strana forma di cecità “mal bianco” colpisce tutte gli abitanti della terra.
Ricordo che fu particolarmente dura provare quello spettacolo, forse perché
inconsciamente, ognuno di noi sapeva che il romanzo di Saramago non fosse
fantascienza ma qualcosa che un domani lontano sarebbe anche potuto accadere.
Dopo le prove eravamo sempre esausti, non tanto a livello fisico ma a livello
emotivo, provare quei dialoghi ci metteva a dura prova, raccontavamo un mondo
all’apparenza perfetto ma che inizia a marcire dentro, colmo di rapporti
malati, cinici e perversi: homo homini lupus, ognuno con la propria sofferenza,
ognuno col proprio dolore. Non c’è via d’uscita almeno all’inizio a questa
epidemia di mal bianco.
“Secondo me non siamo diventati ciechi,
secondo me lo siamo. Ciechi che vedono, ciechi che pur vedendo, non vedono”. E
così eccole le nostre piccole grandi paure, spiattellate alla luce del sole
perché ormai cosa abbiamo da perdere? Se siamo tutti ciechi che importa del
mondo, della regole, della convivenza pacifica? Possiamo picchiarci, derubarci,
diventare animali che si azzuffano per un pezzo di pane, per una pistola. Dov’è
la nostra umanità? Una cosa che mi ha colpita molto del romanzo è che ad un
certo punto tutti i personaggi del libro non sentano più la necessità di avere
orologi con sé, (“i loro orologi erano tutti fermi”) nessuno può leggere l’ora,
che importa se i giorni passano uguali e anonimi. Anche adesso, che siamo in
quarantena, mi capita spesso di pensare “che giorno è?” perché se non possiamo
condividerlo con gli altri il tempo perde necessariamente il suo valore.
Eppure un barlume di speranza c’è, deve
esserci, nel libro come nella vita. Io lo intravedo in alcune battute recitate
da un personaggio che non ricordo ma che dice così “...domandare se c’è
qualcuno fra noi che conosca delle storie da raccontare la sera, storie,
favole, aneddoti, tant’è, pensate che fortuna se qualcuno conoscesse la Bibbia
a memoria, ripeteremmo tutto partendo dalla creazione del mondo”... Sono le
storie che ci salveranno, raccontare quello che stiamo vivendo a partire dalla
nostra quotidianità, dal nostro sentire, dalle nostre emozioni contrastanti che
oscillano tra disperazione, paura e speranza. Quelle parole sembrano anche un
invito a ricominciare da capo, a ripartire da zero. Sicuramente quello che sta
accadendo non può non avere un impatto fortissimo sulla nostra visione delle
cose e del mondo. E così anche noi, proprio come i personaggi del libro,
cerchiamo il contatto pur se a distanza e ci raccontiamo, perché è la
condivisione a renderci umani.
In questi giorni alieni mi capita spesso
di ripensare alla mia partecipazione a “Ciechi” e solo ora mi viene in mente
che il sottotitolo dello spettacolo fosse: “poco prima che l’Homo Sapiens si
estingua”. Non è una catastrofe, se da tutto questo può nascere un uomo nuovo,
diverso e rinnovato, non è un male. Forse il nostro essere Sapiens ha fatto il
suo corso dopotutto. Dobbiamo inventarci nuovi modi di essere umani, proprio
come noi attori, che sul palco, a fine spettacolo, ci siamo abbracciati come se
ci vedessimo per la prima volta, senza veli, senza fronzoli.
Ne usciremo, un po’ ammaccati ma ne
usciremo, diversi sicuramente, forse migliorati ma ne usciremo. Quest’incubo
non può durare per sempre, come direbbe il sommo Saramago :”Per sempre no, per
sempre è sempre troppo tempo”.
Annalica Casasanta è attrice teatrale, sociologa
Annalica Casasanta è attrice teatrale, sociologa
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