di Silvia Civitarese Matteucci
Sono tempi difficili e dolorosi è vero, ma non siamo in guerra come sembrerebbe da un linguaggio sempre più diffuso che mutua metafore e simboli da eventi completamente diversi. Io davanti agli occhi ho una malattia che non ha volontà, non ha odio, non ha desiderio o determinazione. Un virus ha meccanismi di autodifesa e genetica capacità di adattamento e mutazione che però, una volta individuati, possono essere neutralizzati. La nostra certezza sta quindi nel fatto che per quanto tempo ci possa volere abbiamo gli strumenti per venirne a capo e trovare la cura e soprattutto il vaccino. Questa quindi non è una guerra, non ha neanche la forza di fermare quelle vere che nonostante gli appelli e le promesse proseguono, e per quelle la possibilità di un antidoto o una cura la vedo assai più lontana.
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Immagine tratta dal film "28 settimane dopo" |
Gli ospedali non sono trincee: ci si accolla il peso di quell’avamposto per guarire, aver cura, aiutare qualcuno, i medici e gli infermieri fanno il loro lavoro al meglio, in tempi estremi allo stremo delle forze. Non sono eroi romantici, non sono soldati che odiano il nemico, sono uomini e donne che amano: il loro lavoro e il genere umano.
Le vittime non sono i numeri dei bollettini del contagio diffusi quotidianamente, che aumentano solo la paura, sono singole persone con un nome, una storia e una famiglia alla quale un minuto di silenzio per ricordarle non può bastare. Non sono statistiche come le intere generazioni che le guerre vere si sono portate via e che sono diventate per lo più un indice della piramide demografica nella storia dei paesi.
Se
continuiamo a paragonare questa situazione a una guerra aiutiamo soprattutto il
diffondersi di un senso di ineluttabilità, fatalismo e impotenza che porta a
adeguarsi e accettare, favorendo pericolose derive autoritarie come avvenuto
già in Ungheria, dove l’assunzione dei pieni poteri da parte del premier ha più
il sapore di una scelta politica che non sanitaria. La guerra fa prevalere l’istinto di
sopravvivenza ora invece serve spirito di responsabilità e solidarietà, in
guerra ci si arrangia, e per molti trovare un modo per tirare avanti è sempre
stata la sfida quotidiana, ma ora chiusi in casa neanche questo è possibile.
“Andrà tutto bene”, “Insieme ce la faremo”
all’inizio sono serviti a farci coraggio ma più i giorni passano più sono
evidenti le difficoltà, le false sicurezze, le vulnerabilità e le paure che gli
slogan non ci aiutano a superare. Bisogna invece evitare la retorica che
favorisce le generalizzazioni, le approssimazioni e le facili enfatizzazioni a
scapito del ragionamento perché, se è vero che sul presente non abbiamo grosse
possibilità di intervento, è necessario riflettere sul futuro. Lo stato di
emergenza prima o poi passerà, il covid 19 tornerà alla sua latitanza, per
fortuna, anche nelle peggiori previsioni, senza aver lasciato la scia di morti
delle ultime guerre, e dipenderà da noi aver imparato qualcosa sul prevenire o
sul farsi trovare pronti.
Non è una guerra perché il risultato
finale, nonostante le tante strategie necessarie per contenere le conseguenze
di questa situazione, è affidato alla popolazione, che è quella che in questo
momento con il suo comportamento sembra poter fare la differenza: restiamo a
casa. Sono solo tempi molto tristi.
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