di Giuseppe Mosconi
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L'abbraccio del mondo, Acrilico di Carlo Di Camillo |
Innanzitutto la rivelazione definitiva dei limiti e delle
aberrazioni del nostro modello di sviluppo, dei sistemi socioeconomici
rilegittimati e imposti dal neoliberismo. Se alla base della pandemia corrente,
così come delle altre recenti, stanno le
devastazioni ambientali, le alterazioni climatiche, gli squilibri nei rapporti
tra le biomasse e l’attacco alla biodiversità, indotto dagli allevamenti
industriali, le concentrazioni nelle megalopoli, l’iperconsumo e la
devastazione del territorio, il dilagare dei rifiuti, la deforestazione e la
desertificazione di vaste aree del pianeta, la crescente concentrazione della
ricchezza e il conseguente deterioramento delle condizioni di vita, tanto nelle
aree sviluppate che in quelle più deprivate della popolazione, la demolizione
del welfare, per non citare che gli aspetti principali, appare evidente come
questa pandemia rappresenti la cartina di tornasole che dimostra lo stato delle
cose, tanto come causa o condizione favorevole al suo dilagare, quanto come
condizione di aggravamento e drammatizzazione dei suoi effetti. Quindi qualcosa
da considerare per non tornare indietro, quasi una catarsi.
S alto di paradigma: il pro
In secondo luogo va considerato il salto di paradigma nella
percezione della paura e della sicurezza. Non più il pericolo che viene dal di
fuori, dall’Altro, (l’immigrato, il
delinquente, il terrorista, il diverso in genere), ma un pericolo tutto
interno: la nostra società, i nostri vicini e famigliari, noi stessi; dove i
limiti imposti alla libertà e alla qualità della vita e la destrutturazione del
nostro sistema socioeconomico sono direttamente agiti da quelle istituzioni che dovrebbero proteggerci, ieri
dalle presunte ed enfatizzate invasioni,
oggi da un concreto pericolo di vita, che nella sua effettività assai meno si
presta a narrazioni fantasmatiche e strumentali.
La difesa della vita, della sicurezza, del benessere vengono
così, in terzo luogo, drasticamente
dissociate dall’idea di uno sviluppo senza limiti, di un consumismo affluente,
dalle compatibilità, dalla stabilità, dagli equilibri di bilancio, lungamente
imposti dall’Europa, dalle ragioni del mercato, dalla necessaria austerità,
come condizione della ripresa, dalla remuneratività degli investimenti e delle
speculazioni finanziarie, per ridursi, a livello di massa, alla difesa
minimale della “nuda vita”, contro ciò
che è concretamente percepito come pericolo di malattia, di sofferenza, di
morte.
Questo imporsi dell’essenziale, come oggetto di tutela, a
prezzo di decise rinunce anche agli elementi più banali della quotidianità,
induce ancora non solo alla percezione di condividere tutti la stessa
situazione (nella stessa barca), ma anche alla maggiore attenzione e
condivisione della sofferenza di chi è più vulnerabile, esposto e svantaggiato.
Nasce così un nuovo senso di solidarietà, che si manifesta nella maggiore
comprensione e tolleranza, nel ridimensionamento dei feticismi di status, ma
soprattutto nelle tante manifestazioni di mobilitazione e di sostegno al
disagio che l’attività di volontariato pone in essere.
Sotto un altro profilo, il diritto, le disposizioni
legislative e amministrative, sembrano attraversare una fase di una nuova efficacia,
nel senso di una costante attenzione generalizzata alla produzione delle norme
sul tema, del rispetto delle stesse e della polarizzazione istituzionale del
consenso.
I sentimenti di maggiore eguaglianza e di condivisione
sembrano delinearsi nella comune attesa che l’emergenza abbia un termine, nella
comunicazione di massa attorno a un unico tema condiviso: combattere il nemico
invisibile, difendersi, impegnarsi e sperare di vincere. Intanto però l’aria si
fa più pura, crolla l’inquinamento urbano, il traffico si dirada, forse il
clima migliora. Anche se tutto ciò non si può direttamente godere, data la
necessaria clausura domestica, potrebbe essere il segno promettente di un
cambiamento reale, possibile, quasi già avviato.
Dunque classicamente “non tutto il male vien per nuocere”?
Il Covid 19 rappresenta un’occasione foriera di una serie di prese di
consapevolezza, di opportunità e di positivi cambiamenti, per quanto, certo, a
caro prezzo?
Gli elementi
contro
Se ripercorriamo questi vari aspetti, uno ad uno, possiamo
cogliere o ipotizzare come per ciascuno di essi in realtà emergano o siano intuibili elementi
contrastanti, tali da pesare in senso contrario o porsi in contraddizione. Così
la consapevolezza delle ragioni di fondo che stanno alla base dell’emergenza
può restare rimossa e confusa dalla concentrata attenzione sulle misure da
seguire per prevenire il contagio, quasi che bastasse seguirle alla lettera per
porre fine all’emergenza per sempre e riprendere una vita normale, senza considerare
che se non si affrontano e risolvono almeno le principali delle sopra citate
problematiche, che stanno alla base delle epidemie, altre ne verranno, magari
peggiori.
La fine dell’emergenza immigrazione, anche se sembra segnare
il tracollo delle retoriche securitarie, non è detto che si traduca in maggiore
disponibilità all’accoglienza. Anzi, l’allarme diffuso potrebbe tradursi in
maggiore ostilità contro ulteriori problemi connessi all’arrivo di masse di
migranti; tanto che l’Europa ha deliberato, per la fase in corso, la chiusura
dei porti, dichiarati insicuri, e delle frontiere, anche se di sbarchi non si
sente più parlare, non si sa se perché fortemente ridimensionati; o perché non
fanno più notizia, a fronte della polarizzazione mediatica sul coronavirus. Ma
nel frattempo si riconferma in modo ancora più diffuso e penetrante, con esiti
quasi estremi, il paradigma della paura, come fondativo della convivenza e
dell’aggregazione sociale, all’insegna, al di là dell’oggettiva necessarietà,
della distanza e del sospetto di tutti contro tutti.
Crisi di
identificazione
La crisi di identificazione con il modello di sviluppo e di
benessere prevalente non è certo sufficiente a impedirne l’ipotetico rilancio
da parte delle grandi holding capitalistiche, delle centrali bancarie e della
speculazione finanziaria, ad emergenza finita. Si tratta di interessi troppo
strutturati e radicati, per pensare che sia un evento come l’attuale
sufficiente a destrutturarli, o solo a indebolirli, al punto da dischiudere
serie prospettive di cambiamento. Mentre possono trovare nuovo spazio
nella prevedibile esplosione
consumistica post-crisi, a compensazione delle limitazioni sofferte. Questo
vale anche per le politiche di austerità e stabilità imposte dall’Europa, non a
caso decisamente contraria ad emettere gli eurobond e pronta a rivendicare il
recupero dei crediti maturati con la politica del credito agevolato e della
temporanea accettata destrutturazione dei limiti di bilancio. L’esito di tutto
ciò potrebbe essere un’ulteriore concentrazione della ricchezza in mano a
pochi, con un divario tra una ristretta élite arricchita e una massa sempre più
depauperata più accentuata e drammatica
di quella attuale.
Il diffondersi di solidarietà e altruismo, convivono in
realtà con le implicazioni del pur necessario distanziamento: la diluizione, se
non la rottura, dei legami sociali, l’individualismo del “io speriamo che me la
cavo”, il rigore quasi ossessivo del controllo reciproco, pronto alla
segnalazione e a alla denuncia, il sospetto reciproco sull’inadeguatezza dei
comportamenti, e la diffusione, si è detto, di una più penetrante paura,
insieme agli sperimenti di trasgressione nella convinzione di poterla fare
franca. Rispetto a tutto ciò il linguaggio celebrativo della nuova solidarietà,
della frugalità, dell’eroica abnegazione professionale delle prime linee, dei
diffusi e multiformi atti di altruismo, insieme alle frequenti manifestazioni
di condivisione, rischiano di ridursi, al di là della loro effettiva rilevanza,
a semplice copertura retorica di orientamenti e atteggiamenti diffusi di
tutt’altro segno.
All’interno di questa più criptica, ma più concreta
dimensione è da chiedersi quali siano e potranno essere le implicazioni
culturali e identitarie di una così prolungata e stringente limitazione delle
più elementari libertà, di un controllo così diffuso e penetrante, certo
manifestazione, oltre alle imposizioni istituzionali e formali, di un foucaultiano potere informale e
pervasivo; e ancora quali le conseguenze dell’assunzione rassegnata di nuove
abitudini rinunciatarie e deprimenti, del diffondersi massivo di un clima di
fatalismo rinunciatario, per quanto celebrato e sublimato come mobilitazione
collettiva per la certa sconfitta del nemico invisibile.
Su versante del diritto, più sopra menzionato, l’apparente
ritrovata efficacia è in realtà riconducibile non tanto alla forza del diritto
in sé e alla coercitività deterrente delle sanzioni preordinate, quanto alla
paura della malattia in quanto tale e delle sue possibili conseguenze letali.
Questa disposizione generalizzata alle drastiche limitazioni
dell’esercizio dei diritti fondamentali, di cui viene a permearsi la
quotidianità, insieme alla rinuncia a praticare i più radicati riti del
benessere, a tutti i livelli, va di pari passo con un sistema di informazione e
comunicazione assolutamente totalizzato dal tema coronavirus, tanto che non si
parla più d’altro. Essenzialmente a tre livelli: l’andamento dell’epidemia, a
livello nazionale e internazionale; le misure e i comportamenti necessari per
combatterla; le esperienze concrete di gestione della stessa, nei più disparati
ambiti e a vari livelli. A ciò va aggiunto il sapere degli esperti, tutto
peraltro concentrato sui caratteri del virus e sulle modalità di gestirlo,
tanto a livello medico che scientifico. Restano quasi del tutto estranee a
questa comunicazione, l’informazione e l’analisi sulle cause e sul contesto
strutturale della diffusione della pandemia, cioè sulla crisi ambientale e
climatica provocata da un modello di sviluppo e un assetto di produzione e
consumo divenuti insostenibili, che possono produrre fenomeni distruttivi
completamente fuori controllo, come il presente; cioè quegli aspetti
strutturali di dimensione globale richiamati più sopra. Ora non è detto che il
secondo ambito di elementi ora delineato sia tale da destrutturare il primo,
neutralizzandone le potenzialità. Può apparire piuttosto sensato ritenere che
tra le due dimensioni sia in gioco un sostanziale, anche se non evidente
conflitto, i cui esiti appaiono altamente incerti, tanto da far ritenere immotivato un pur cauto ottimismo.
Basta vedere come,
pur sul versante critico della lettura del fenomeno e della sua
enfatizzazione, si confrontino approcci molto diversi e tra loro contrastanti.
Così gli interventi variamente negazionisti, tesi a sdrammatizzare l’emergenza
e a decostruire il senso delle politiche adottate, non vanno certo in sintonia
con la denuncia della crisi globale, economica, sociale, climatica, ambientale,
indotta dal neoliberismo e dal saccheggio delle risorse naturali del pianeta,
che assume invece la gravità della pandemia e di ciò che la stessa rappresenta.
Problematico è anche il rapporto tra tale lettura critica
con quella che paventa grandi speculazioni economiche e di mercato
sull’emergenza, come l’incremento vertiginoso del settore informatico, la lotta
tra case farmaceutiche e settori di ricerca per aggiudicarsi l’affidabilità di
nuovi farmaci e di possibili vaccini, così da accaparrarsi interi settori di
mercato, o la speculazione sui dispositivi di prevenzione, di protezione e di
cura (mascherine, disinfettanti, respiratori ecc…), fino a sollevare sospetti e
denunce sulle intromissioni della criminalità organizzata. La potenziale
maggiore sintonia tra questo approccio e il precedente non si traduce certo in
comunicazione, e ancor meno in strategia integrata tra i due discorsi. E
altrettanto non si sintonizzano le letture dietrologiche e complottistiche
dello strumentale scatenarsi pandemico.
Tra solidarietà e finanza
In ambito produttivo ancor più evidente è il contrasto tra
chi vorrebbe allentare le misure restrittive per rilanciare il lavoro e
garantire la sopravvivenza, per quanto con le necessarie misure di protezione,
e chi denuncia la persistente esposizione al pericolo di settori della classe
operaia, obbligati a continuare a lavorare, per non mettere definitivamente in
crisi determinati ambiti produttivi classificati come prioritari ed essenziali
(sanità esclusa, ovviamente). Dunque, mentre l’espandersi dell’emergenza e
dell’allarme sociale sembrano accomunare tutti in un catartico, anche se
ovviamente virtuale “embrassons nous”, peraltro sconfessato e turbato dalle
speculazioni elettorali della destra, il
fronte di un possibile conflitto proteso al cambiamento è ben lontano dal
delinearsi. La sinistra al governo (non parliamo dei 5S) appare tutta
concentrata a sollecitare il rispetto dei vincoli di distanziamento sociale e a
far fronte all’emergenza economica, e ben lontana non solo da proporre un
diverso sistema fiscale, che comporti una tassazione patrimoniale e la
redistribuzione del reddito, nonché il rilancio del welfare, come l’evidente
crisi delle strutture sanitarie postulerebbe, ma dal toccare i grandi temi del
riequilibrio degli ecosistemi e della ridefinizione del concetto e delle
pratiche dell’ecosostenibilità produttiva, che i processi strutturali che
stanno alla base della pandemia
richiederebbero.
Dunque le condizioni per il riaprirsi di un conflitto che
investa i processi strutturali che stanno alla base dell’emergenza, promuovendo
i cambiamenti necessari, non ci sono.
Il conflitto tace, mentre le misure di distanziamento e di
controllo capillare dell’emergenza e il prevalere del panico morale di massa
hanno, paradossalmente, ma inevitabilmente, disperso, o quantomeno confinato in
rete, quei barlumi di movimenti (Friday for future, Extintion rebellion,
Sardine ecc…) che cominciavano a delinearsi. Greta contaminata, in
autoisolamento, sembra quasi, al di là delle reali necessità terapeutiche, un
simbolo negativo e deprimente di tutto ciò. Sul fronte opposto si profilano
minacciosi, come l’avanzare di un cupo fronte nuvoloso, gli elementi per una
piena riaffermazione dello stato di cose precedenti all’esplosione della crisi,
all’insegna della “ripresa”: il riconfermarsi delle holding e dei potentati
economici e finanziari, resi più forti
dal disgregarsi della piccola e media industria, provocato dalla crisi, e dai
crediti maturati con l’erogazione di denaro per far fronte all’emergenza; la
ripresa impetuosa dei consumi, in chiave compensatoria delle privazioni e
restrizioni sofferte durante la gestione della crisi, tali da trainare e
incentivare le precedenti logiche produttive; il recupero di un’Europa della
stabilità, esattrice per se stessa, e
per conto delle grandi centrali bancarie e finanziarie, dei crediti maturati a
causa delle erogazioni emergenziali, ai vari livelli; il riaffermarsi di un
ordine internazionale che farà i conti con gli squilibri geopolitici che la
crisi ha provocato, con dinamiche ed esiti difficilmente prevedibili.
Solidarietà, frugalità, ritorno all’essenziale, abnegazione
altruistica e dedizione volontaria, tutti elementi messi in luce in questi
mesi, come espressione di un sostrato sommerso di potenzialità e segnale di una
diversa umanità possibile, difficilmente saranno in grado di far fronte
all’ondata restauratrice, rischiando di rifluire in quel diffuso “senso
comune”, magari sulla spinta dei festeggiamenti acritici e spensierati per il
cessato allarme. Dunque nessun reale, epocale cambiamento è dietro l’angolo;
nessun conflitto concreto sul terreno strutturale più appropriato appare
imminente. La sofferenza e la fragilità delle aree di soggetti più disagiati e
vulnerabili (anziani ricoverati nelle case di riposo, detenuti, SFD, immigrati
stipati in appartamenti e luoghi di lavoro irregolari, reclusi nei Cas e nei
CPR) appare la punta emergente, il tornasole di questo stato di cose.
Valga per tutti la condizione di chi è detenuto e di chi
lavora in carcere, costretto da una irriducibile cultura punitiva e da una
conseguente retriva politica governativa di rifiuto di serie politiche
deflattive, a una concentrazione e a una contiguità fisica, che appare il
contrappasso emblematico del distanziamento sociale postulato all’esterno per
la società dei “liberi”. Dunque tutte le variabili sono in gioco in un campo
aperto. Cosa prevarrà? Il senso quasi catartico dello sconvolgimento di vita
sperimentato o la ragione forte del sistema economico e politico che lo ha
provocato? Il senso di solidarietà e del necessario rispetto dei limiti degli
equilibri di natura o il rigore ipernormativo, anticamera di una più
costrittiva perdita di democrazia e di una cultura più conservatrice?;
l’affermazione della necessaria conversione ecologica o il ritorno sfrenato
alle ragioni della produzione, dello “sviluppo” e del consumo?; l’esperienza
dell’essenziale o la celebrazione del superfluo?; la consapevolezza del
riequilibrio del rapporto uomo/natura, o lo sfogo dell’astinenza, a supporto
degli interessi e delle ragioni forti?
Evitando di cadere in facili manicheismi o semplificazioni,
è però chiaro che si tratta di un insieme di elementi in gioco sulla scena
attuale, implicati nel possibile riemergere di un conflitto, ridisegnato dalla
natura della crisi, verso un diverso mondo possibile: purché se ne delineino il
terreno strutturale di base e le ragioni di fondo, proprio quello che la
rappresentazione della pandemia e delle modalità della sua gestione, con le
retoriche che l’accompagnano, tendono ad oscurare.
Giuseppe Mosconi, già ordinario di Sociologia del Diritto, Università di Padova
Giuseppe Mosconi, già ordinario di Sociologia del Diritto, Università di Padova
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